In questa estate infinita di femminicidi e violenze che hanno indignato l’opinione pubblica, ultima in ordine cronologico lo stupro agito da un branco di ventenni ai danni di una coetanea, il dibattito che ne scaturisce mette ancora una volta in luce quanto non sia ancora chiaro il concetto di consenso, ovvero il nodo fondamentale che distingue un rapporto, appunto consensuale, da una violenza subita. Una questione culturale in primis, ma anche normativa.
Attualmente, il Codice penale italiano, all’articolo 609-bis, prevede che il reato di stupro sia necessariamente collegato agli elementi della violenza, della minaccia, dell’inganno, o dell’abuso di autorità. In nessun modo lo stupro viene definito “un rapporto sessuale senza consenso”. Pertanto, Amnesty International Italia chiede al ministro della Giustizia che la legislazione italiana si adegui alle norme internazionali, modificando l’articolo 609-bis del Codice penale per considerare reato qualsiasi atto sessuale senza consenso. A occuparsi della questione, ormai da qualche anno, è la campagna #Iolochiedo di Amnesty International, che agisce sui due fronti: quello delle istituzioni e quello dell’informazione, per cercare di diffondere consapevolezza e scardinare così il maggior presupposto (culturale ma usato spesso anche nelle aule dei tribunali) della rape culture, ovvero: “Lei ci stava”. Né più né meno di quello che hanno sostenuto, buoni ultimi, gli autori dello stupro di gruppo di Palermo, che tanta indignazione ha suscitato. Tua City Mag ha parlato con Tina Marinari, portavoce di questa importante campagna, #Iolochiedo, per saperne di più.
Intervista a Tina Marinari, portavoce della campagna di Amnesty International #Iolochiedo sul consenso sessuale e per abbattere la cultura dello stupro
Quando e perché Amnesty International ha avviato la campagna sul consenso sessuale #Iolochiedo?
“La campagna nasce nel 2018. I nostri ricercatori hanno fatto un’analisi dei codici penali dei 31 paesi europei (del Consiglio Europeo) e si sono accorti che, all’epoca, solo 8 paesi di questi 31 avevano all’interno del proprio codice penale il concetto di consenso. Da lì abbiamo deciso di lanciare una campagna per chiedere una modifica dei codici penali perché, all’interno della Convenzione di Istanbul, che ormai è diritto internazionale, ha fatto 10 anni nel 2022, il concetto di consenso relativamente allo stupro viene esplicitato all’articolo 36 e tutti i paesi che hanno aderito dovrebbero avere tale concetto previsto all’interno del proprio codice penale. In realtà così non è. La notizia positiva è che, da 8 oggi siamo arrivati a 17 paesi europei che hanno introdotto nel loro codice il concetto di consenso, quindi la campagna ha funzionato.
Anche in Italia?
In Italia la campagna #Iolochiedo è partita con un anno di ritardo rispetto agli altri paesi europei. Abbiamo prima fatto un lavoro di indagine con Ipsos per capire quale fosse la sensibilità della società italiana su questo tema. Per scoprirlo, abbiamo fatto le stesse domande che aveva fatto nel 2014 la Fundamental Rights Agency, agenzia europea dei diritti fondamentali, sullo stesso tema. Il risultato, a quattro anni di distanza era lo stesso. Questo vuol dire che in quattro anni nel nostro paese, sulla cultura dello stupro e sul concetto di consenso, non era cambiato assolutamente niente, e che tutti quegli stereotipi legati al fatto che ‘se l’è andata a cercare’, se ha bevuto, se ha assunto droghe, se vuole salvarsi da uno stupro può, com’era vestita ecc. resistevano ben saldi. E’ importante sottolineare questo, perché l’Italia ha sottoscritto la convenzione di Istanbul, che oltre a chiedere ai paesi aderenti di modificare il codice penale introducendo il concetto di consenso, chiede anche formazione ed educazione della società civile su questo tema.
A livello istituzionale, in Italia, quali risultati ha portato la vostra richiesta di inserire il concetto di consenso nel codice penale?
Abbiamo fatto diversi incontri a livello istituzionale. Noi proponiamo una modifica del codice penale e, per fare questo, abbiamo bisogno di un sostegno politico che sia ampio e trasversale, cosa che al momento, su questo tema, non si riesce ad avere in Italia. La verità è che c’è molta freddezza su questo tema e, diciamolo, c’è anche tanta paura. Passare dal parlare di violenza a parlare di consenso fa paura, si pensa che sia una posizione impopolare. Stiamo lavorando tanto comunque. E poi c’è questa pressione dell’Europa che speriamo porti a dei risultati.
In questi giorni di cronache che ci disgustano, c’è chi invoca la castrazione chimica, ma a che serve se poi c’è un humus culturale che favorisce e addirittura arriva a giustificare la violenza?
Racconto una cosa che credo abbastanza indicativa. La campagna si chiama in originale Let’s talk about consent, ma ci siamo accorti che se avessimo tradotto in italiano fedelmente il nome della campagna europea nessuno l’avrebbe capita. Per la maggioranza delle persone non avrebbe significato niente. Perché in Italia è talmente poco radicato il concetto di consenso legato all’atto sessuale, che sarebbe stato poco efficace usare questa espressione a livello comunicativo. Quindi abbiamo scelto #Iolochiedo, anche per stimolare la curiosità e soprattutto per spingere a farsi (e fare) delle domande in certe situazioni.
Quindi, cosa dovremmo chiedere?
Semplicemente se l’altra persona sia contenta di stare lì a fare quello che sta facendo. In incontri pubblici e sui social quando parliamo di questo, arrivano battute e reazioni che ci fanno capire che c’è ancora tanto da fare. La risposta più frequente è: ‘ma quindi per chiedere il consenso, che dobbiamo fare un contratto prima?!’ Più ci lavoriamo, più ci rendiamo conto che questa, molto più di altre, è una campagna di prossimità. Questi sono argomenti di cui dobbiamo parlare nella nostra quotidianità, a casa, con gli amici, intervenire quando ci sono battute sessiste, cercare di far capire a chi ci sta davanti in cosa consiste il rispetto in certe situazioni.
E’ difficile: la tecnica più usata da chi ha la coda di paglia è sminuire la questione, farti passare da esagerato quando fai notare cose che ti offendono ecc.
Si, ma anche quelle reazioni sono figlie di un contesto. Lo vediamo tutti i giorni. Penso ai commenti e alle reazioni che ho letto dopo la recente sentenza sul palpeggiamento di un bidello ai danni di una studentessa, i video in cui ci facevano vedere quanto dura una palpata, 10 secondi, anche di donne. Ogni volta diventa tutto uno spettacolo, una continua minimizzazione e ridicolizzazione anche di una persona che ha subito violenza. Così come sono ormai intollerabili e gravissimi i racconti mediatici dello stupro che spesso scendono nei dettagli solo della vita della vittima. Anche quello vuol dire ancora ledere la dignità e i diritti di una persona.
Come se ne esce?
Lavorando tanto sull’informazione e sul far passare messaggi che facciano capire che quando parliamo di violenza e stupro, parliamo di vite spezzate. E questo si può fare in tanti modi. Noi stiamo portando in giro la mostra “Com’eri vestita” che non è una vera mostra, ma un’esposizione di 17 stampelle con sopra dei vestiti che raccontano 17 storie vere di donne che sono state stuprate, perché sono gli abiti che indossavano in quel momento. E’ un’iniziativa che dimostra che si può essere vittima di stupro quando si è in minigonna, ma anche in pigiama o in tuta, e punta a smontare i pregiudizi su ‘chissà com’era vestita?!’. E questa mostra la portiamo soprattutto nelle scuole, perché è uno strumento che parla benissimo ai più giovani.
Che reazioni avete nelle scuole, quando andate a parlare di consenso, stupro, violenza?
Nelle scuole superiori troviamo grande interesse e sensibilità, sia da parte delle ragazze che da parte dei ragazzi. Ho trovato anche tanta consapevolezza sul tema. Mediamente sono più informati i ragazzi degli adulti. C’è un approccio veramente all’avanguardia su certi temi nelle nuove generazioni, anche sul piano del linguaggio, c’è molta più confidenza e anche una certa allegria su questi argomenti. Questo non vuol dire che sia sempre tutto rose e fiori. Mi è capitato di andare nelle scuole a parlare di consenso e ritrovarmi alla fine degli incontri con ragazze che sono venute a raccontarmi situazioni che le coinvolgevano e che ovviamente io poi ho indirizzato a chi aveva gli strumenti giusti per ascoltarle e intervenire. Noi ci occupiamo di lavorare sulla cultura e sulla possibilità in questo caso di cambiare le leggi, ma poi bisogna sempre ricordare che ci sono figure istituzionali a cui ci si può rivolgere e che possono intervenire, dagli psicologi che sono dentro le scuole a diverse altre figure. Quello che si riscontra in modo più forte andando a fare questi incontri nelle scuole su consenso e violenza è la fortissima volontà dei ragazzi di parlarne e di confrontarsi su questi argomenti. E questo rende ancora più evidente quanto la mancanza di percorsi di educazione sessuale ed affettiva nelle scuole sia un grande buco. I ragazzi sono pronti ad affrontare seriamente questi argomenti, siamo noi adulti che non troviamo anche la determinazione di affrontarli come si deve.
Percorsi che dovrebbero coinvolgere anche l’infanzia per essere davvero efficaci
Noi abbiamo fatto un progetto anche nelle scuole elementari. Ovviamente non siamo andati a parlare di consenso sessuale, ma di rispetto in senso più ampio. L’abbiamo fatto portando nelle scuole un libro per bambini e bambine che si chiama “Dai un bacio a chi vuoi tu” che invita appunto a essere empatici e a capire, anche chiedendo, come il bambino si senta nel fare qualcosa, per esempio quando diciamo loro: ‘dai un bacio a zia, dai un bacio a nonna’ ecc. Abituare i bambini a chiedere e dire come si sentono rispetto al loro spazio di intimità può educarli a chiederlo e ad esprimerlo anche un domani in situazioni relazionali più complesse.
Come ogni campagna e ogni attività solidale, anche il prezioso lavoro di Amnesty International, si può sostenere materialmente, tra le altre cose, attraverso un lascito solidale. Cos’è e come funziona?
Il lascito solidale è un gesto d’amore per le generazioni future. E’ dare un segnale rispetto a quello in cui si crede e consiste nel fare una donazione per quando non ci sarai più ma potrai continuare a sostenere il lavoro sui temi in cui credi.
Per riceveremaggiori informazioni su come destinare un lascito solidale in favore di Amnesty International scrivere a lasciti@amnesty.it oppure visitando il sito https://amnesty.it/lasciti.