Il 21 settembre del 1990 era ancora una giornata di calda estate in Sicilia. Un giovane e caparbio magistrato viaggiava sulla sua Ford Fiesta sulla superstrada che collega Caltanissetta ad Agrigento. Era diretto in tribunale. Viaggiava, come sempre, senza scorta. Anche se le inchieste che aveva condotto e stava conducendo avevano dato fastidio a parecchi. Soprattutto ai boss della Stidda, la versione agrigentina di Cosa Nostra.
All’improvviso la vecchia auto rossa viene speronata. Rosario Livatino ha capito subito cosa stava succedendo, perché lui sapeva che qualcuno gliel’ aveva già giurata da tempo.
Troppo zelante quel magistrato con la faccia da bambino, troppo determinato ad andare a fondo sul malaffare che come un cancro si mangiava dall’interno il suo territorio.
Per Rosario Livatino, lavorare perché il bene vincesse sul male non era questione di mestiere, era questione di missione.
Una missione che lo aveva portato a non guardare in faccia nessuno nella sua ricerca di verità e giustizia. E così si era trovato a mettere i bastoni tra le ruote ai più potenti criminali della sua zona. Gente che non dimentica e non perdona.
La morte di Rosario Livatino e la protesta dei magistrati abbandonati
Quando il killer sperona la sua auto, il magistrato si precipita fuori dall’abitacolo e comincia a correre verso i campi che costeggiano la strada. Ma sa che non ha scampo. Iniziano gli spari, un proiettile lo colpisce alla spalla, la sua corsa diventa più difficile, pesante, impossibile. Il male lo raggiunge e lo finisce a colpi di pistola. Il bene crolla a terra senza vita, ma non vinto.
La morte e ancor più la vita di Rosario Livatino, il suo esempio, il suo impegno, non smetteranno di parlare al mondo di giustizia e legalità.
A piangere sul cadavere del magistrato accorrono i colleghi che hanno lavorato fianco a fianco con lui come Roberto Saieva e Fabio Salamone, ma anche colleghi di altre procure siciliane, come Palermo e Caltanissetta. Si chiamano, per esempio, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La morte del giudice Livatino farà da detonatore delle tensioni che da molti mesi si respiravano tra le toghe dell’isola.
Il momento è tra i più tragici della storia recente della Sicilia. Le guerre di mafia fanno morti e dispersi e di lì a poco i boss alzeranno il tiro e individueranno sempre più spesso i nemici da abbattere non più prevalentemente tra i capi clan avversari, ma molto più pericolosamente tra le istituzioni e i loro rappresentanti che comunque già da tempo hanno iniziato a piangere i loro caduti. Mancano una manciata di mesi e inizierà la fase più cruenta di una stagione di stragi e di bombe. Quella con cui la mafia vuole sfidare a viso aperto lo stato indebolito da una crisi istituzionale che sembra senza soluzione.
L’assassinio di Rosario Livatino porta i giudici siciliani a riunirsi ad Agrigento per denunciare a voce alta il loro senso di abbandono. La mafia minaccia ogni giorno il loro lavoro e la loro vita, lo stato non sa garantire loro protezione.
Il giudice ragazzino e la battaglia contro la Stidda
Il clima è tesissimo, e qualche mese dopo arriveranno le incredibili esternazioni del Presidente della Repubblica ( e capo della magistratura italiana) Francesco Cossiga, sui ‘giudici ragazzini’.
“ ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno…? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza!”
Un discorso sprezzante, che suona come un’aperta delegittimazione del lavoro alacre che si sta facendo nelle procure che diventano sempre meno porti delle nebbie e sempre più fari di speranza, soprattutto in Sicilia, anche grazie a una generazione di magistrati che nella loro missione crede fermamente.
Questa etichetta del giudice ragazzino rimane così attaccata al nome di Rosario Livatino. Tanto che, quando qualche anno dopo viene realizzato un film che racconta della sua vita, quell’espressione viene usata per fare il titolo.
Il giudice ragazzino in realtà aveva quasi 40 anni ed era un magistrato che lavorava già da dieci alle più scottanti inchieste della sua procura in un momento in cui la Stidda, la mafia di Agrigento diventava sempre più potente e cosciente di esserlo.
Rosario Livatino era nato a Canicattì, un centro di 30000 anime, nel 1952. Nel 1975 si era laureato in Giurisprudenza e nel 1979, dopo aver vinto il concorso in magistratura divenne sostituto procuratore ad Agrigento.
In quel ruolo indagò sui più importanti fatti di criminalità e corruzione del territorio per tutti gli anni ’80, essendo titolare anche della prima grande indagine sulla mafia agrigentina che portò, per la prima volta, a un maxiprocesso conclusosi con 40 condanne. L’indagine lo portò ad interrogare molti nomi eccellenti non solo della criminalità ma anche della politica locale e a fare luci su legami e rapporti tra i mondi della lupara e dei colletti bianchi.
Un impegno, una dedizione e una determinazione che firmò la sua condanna a morte.
Rosario Livatino, il giudice beato
L’etichetta del giudice ragazzino, a lungo giustamente contestata da famigliari e amici di Livatino, può essere accettabile però, se la si legge attraverso la lente di una certa purezza di spirito, quella che porta a cercare la verità senza curarsi delle conseguenze, come un atto di fede.
La fede nella vita di Rosario Livatino, è stata determinante. E lo è stata anche dopo la sua morte, quando è iniziato un processo di canonizzazione che lo ha portato a diventare il primo magistrato beato della storia della Chiesa.
Il 9 maggio 2021 in una bella domenica di primavera che profumava già d’estate, le campane della Cattedrale di Agrigento suonavano a festa.
All’interno della Chiesa duecento fortunati, tra cui un gran numero di autorità civili e militari a seguire la cerimonia di beatificazione del magistrato ucciso dalla mafia, presieduta dal cardinale Marcello Semeraro.
Fuori, sotto il sole caldo della primavera siciliana, uno sterminato popolo di cittadini e fedeli venuti a rendere omaggio al giudice ragazzino.
Centinaia di chilometri più a nord, a piazza San Pietro, Papa Francesco spiegava il senso profondo di questa beatificazione: “Oggi è stato beatificato Rosario Angelo Livatino, martire della giustizia e della fede nel suo servizio alla collettività come giudice integerrimo che non si è lasciato mai corrompere. Si è sforzato di giudicare non per condannare ma per redimere. Il suo lavoro lo poneva sempre sotto la tutela di Dio, per questo è diventato testimone del Vangelo, fino alla morte eroica. Il suo esempio sia per tutti, specialmente per i magistrati, stimolo a essere leali difensori della legalità e della libertà“.