Il Roma Pride, sabato 8 giugno, festeggia 25 anni di storia, lotte, impegno e amore che vince l’odio
Colore, condivisione, orgoglio. Si sente nell’aria di questa estate arrivata in ritardo ma perfettamente in tempo: Roma si prepara al suo Pride. “Nostra la storia, nostre le lotte” sarà il messaggio condiviso. Domani cittadini e associazioni marceranno uniti, tra i carri festosi, “per sognare una società diversa, libera e laica”.
La Capitale ha l’onore di aprire le danze al giugno arcobaleno, per trenta giorni di celebrazione della cultura Lgbt in ogni suo aspetto. Con quella parola, pride, il vocabolario inglese descrive una specie di presunzione ostinata, ma la traduzione più esatta sarebbe effettivamente senza vergogna. Dentro il Gay Pride c’è questo: la voglia di uscire allo scoperto, la fierezza del non doversi più nascondere.
Quella del 2019 però ha qualcosa di speciale, perché è una marcia che racconta anniversari importanti. Sono trascorsi 50 anni dalla notte del 28 giugno 1969, che diede inizio ai moti di Stonewall, cinque lunghe giornate di rivalsa, protesta e liberazione.
Erano stati alcuni poliziotti in cerca di “un diversivo” ad entrare, nelle prime ore della mattina, nello Stonewall Inn di New York, storico locale frequentato da persone Lgbt. Pensavano di spaventare gli avventori minacciandoli e lanciando oggetti, ma non è accaduto. Si dice che sia stata Marsha P. Johnson, attivista trans nera che si trovava nel locale, con la sua amica Sylvia Rivera, a scatenare la ribellione degli astanti contro i soprusi degli agenti, con il simbolico lancio di una bottiglia.
Quel primo gesto di forza e caparbietà divenne il fuoco dell’orgoglio di tutti. Fuori dal locale Stormé DeLarverie, lesbica e drag king, si scagliò corpo a corpo contro i poliziotti. In poco tempo, quella che era una piccola lite si trasformò in battaglia di quartiere, in onda anomala che sommerse il pregiudizio e l’aridità di quegli anni, trasformandoli in un fiume multicolore che cominciò a riversarsi sulle strade delle città. Fu l’inizio di una consapevolezza, quella che Pier Vittorio Tondelli definiva “il valere qualcosa”, la luce più preziosa che è arrivata fino a noi. Oggi, per volere dell’ex presidente Barack Obama, lo Stonewall Inn è il primo monumento nazionale legato al mondo Lgbt, perché quel fuoco brucia ancora.
Venticinque anni fa quello stesso fuoco si riversava anche su Roma, nel 1994, quando La Karl du Pignè e il Circolo Mario Mieli portavano il primo Gay Pride unitario per le strade, con un’affluenza che toccò dei picchi storici. La Karl, alias Andrea Berardicurti, era una drag queen del Pigneto – come teneva a specificare – e un’attivista di potenza eccezionale. La sua storia, che si è conclusa prematuramente nel settembre del 2018, viaggia in parallelo con le grandi conquiste della cultura omosessuale nella Capitale. Si unì al Circolo “Mario Mieli” sin dal suo anno di nascita, il 1983, quando i collettivi Narciso e Fuori confluirono in un’unica struttura. Il cui nome, per La Karl e gli altri fondatori, era pieno di gioia e dolore contemporaneamente.
Mario Mieli era un giovane attivista, veniva da una famiglia che rifiutava categoricamente la sua identità di omosessuale. Alla reclusione in un istituto psichiatrico aveva risposto con l’aderenza al marxismo e la fondazione del Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (Fuori, appunto). Percorreva le strade romane con un messaggio di emancipazione senza precedenti, vestito da donna urlava all’eros libero e molteplice, rifiutava le catene di una società che invece amava intrappolarsi. Il suo era un messaggio di amore, fatto anche di eccessi e scandali: famose le sue performance in cui ingeriva rifiuti corporei, sperando di scandalizzare i bigotti fino al ravvedimento.
Di quella libertà suprema che Mieli portava con sé, rimane intatta la testimonianza nelle persone del Circolo. Quando si uccise nell’83, Mario non svelò le sue motivazioni, ma è anche a lui che è dedicata la scia arcobaleno di quelli che sono venuti dopo. Tra loro La Karl, donna delle feste e voce argentina contro le discriminazioni, tra le pioniere della serata Lgbt Muccassassina (oggi al Qube), di cui era insindacabile giudice. Una drag in lotta che vedeva nel colore dei party, l’arma più forte contro l’odio degli ignoranti.
Accanto alle paillette de La Karl, brillavano i costumi esagerati di Vladimir Luxuria, un’altra recluta agguerrita del “Mieli” degli anni ’80. Per anni direttrice creativa delle notti targate Muccassassina, rese l’appuntamento tanto famoso da ospitare artisti come Alexander McQueen, David LaChapelle e Rupert Everett. Con l’attivista Vanni Piccolo e l’allora presidente del Mieli Imma Battaglia, lavorò duramente ad uno dei progetti più ambiziosi della Roma arcobaleno, il World Pride del 2000. Quell’8 luglio di 19 anni fa la Capitale era in pieno Giubileo, i vescovi tuonavano contro l’affronto Lgbt e minimizzavano l’affluenza. Eppure oltre 500.000 persone marciavano sotto il Colosseo, in attesa dell’esibizione di Grace Jones e delle parole di quella Sylvia Rivera dei moti di Stonewall.
C’erano tutti in quella cerimonia faraonica: Vladimir l’artista, Imma la battagliera, Karl l’esagerata, Vanni il risoluto, Franco Grillini presidente Arcigay e ideatore della coincidenza con il Giubileo, e Porpora Marcasciano la “trans cattiva” fondatrice del collettivo Narciso, grande combattente contro lo stigma dell’HIV.
Oggi a quella Roma pazza e inarrestabile, la cultura Lgbt deve molto. Sono stati 25 anni d’amore, attraverso la legge sulle unioni civili e il riconoscimento della potestà genitoriale nelle famiglie arcobaleno, e quei fermenti passano solo il testimone. È ancora “nostra la storia, nostre le lotte”.
Domani il disegnatore Gionatan Fiondella, testimonial 2019 del Pride, omaggerà con la sua matita le memorie delle eroine di queste battaglie: Sylvia, Marsha e Stormè da Stonewall, e la Karl, vero spirito della Roma città aperta. La loro presenza riempirà piazza della Repubblica dalle 16, e accompagnerà il proprio pubblico ancora un’altra volta.
Grande assente sarà invece la sindaca Virginia Raggi, fuori Roma per ragioni istituzionali, sostituita dall’assessore allo Sport e Grandi Eventi, Daniele Frongia, che ha voluto ribadire l’importanza della manifestazione come simbolo di “lotta alle discriminazioni di tutti i generi”. Proprio su questo si è soffermato Sebastiano Secci, portavoce del Roma Pride e presidente del Mieli, che ne ha ricordato l’urgenza in un momento come quello attuale, in cui le violenze sulla comunità Lgbt sembrano essere nuovamente aumentate. “Siamo sotto attacco” dice, e i dati lo confermano: con i 68 episodi di omotransfobia (da gennaio 2018 a gennaio 2019) raccolti da Simone Alliva nell’inchiesta “Caccia all’omo” su L’Espresso del 10 febbraio scorso; e con i dati di Gay Help Line che vedono le segnalazioni di abusi e minacce incrementate del 4%. Poco rassicurante anche il consenso dimostrato dal Ministro della Famiglia Lorenzo Fontana al Congresso di Verona prima, e alla Processione di riparazione dello scorso 1 giugno a Modena dopo, nata come contrappasso al Pride previsto nella città emiliana lo stesso giorno.
Questo 8 giugno Roma si terrà per mano ancora più forte, incrociando le rivendicazioni arcobaleno con le battaglie per l’ambiente, i lavoratori, i disabili e i migranti. Perché il senso del Pride è proprio questo: superare le differenze, glorificare le proprie identità per un obbiettivo unico di rispetto e amore. Muniti degli abiti più sgargianti in armadio, in barba alle proteste per il “decoro”, il percorso si concluderà in piazza Venezia con alcune testimonianze e molti sorrisi. Per chi vorrà, seguirà Adoro, il party ufficiale, in serata, al Village dell’Eur. Tutti riuniti sotto un’unica bandiera che dice, da sempre, “Love is Love”.