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Roberto Luigi Mauri Ph: Carlo Piersanti

Come è andato il lockdown, e come sta andando la ripartenza per un artista che lavora nel cinema? Ne parliamo con l’attore Roberto Luigi Mauri

Roberto Luigi Mauri è un giovane attore con una passione sfrenata per il suo lavoro. Il suo sogno di entrare nel mondo dello spettacolo lo ha fatto lavorare instancabilmente per anni, lo ha impegnato in una lunga gavetta e lo ha fatto arrivare in America e tornare. Parliamo con lui del presente e del futuro degli artisti e del cinema, dei cambiamenti e delle nuove vie di ‘rinascita’ dopo il lungo stop del lockdown.

Roberto, come ha trascorso un artista come te, abituato a girare continuamente tra set e provini il periodo di stop?

Personalmente la quarantena l’ho vissuta discretamente bene, ho approfittato di questo tempo per pensare a nuovi progetti, ho scritto un libro. E’ vero, c’è stato il blocco dei set, ma io ho continuato a lavorare e a fare casting. Anzi, è stata l’occasione per esplorare strade nuove, che vengono molto usate all’estero ma ancora poco in Italia, per esempio il provino fatto ‘a distanza’, attraverso la modalità del self tape, ovvero una prima scrematura che avviene attraverso un video autoprodotto dall’attore che recita una scena dell’opera per cui si candida. Tutto molto fattibile con le nuove tecnologie.

Dopo la quarantena, ora si pensa a ripartire. Nell’ambiente artistico ci si è un po’ lamentati di essere stati considerati per ultimi dai vari provvedimenti istituzionali sulla Fase 2 e c’è stato chi ha detto che questo è successo perché gli artisti fanno meno squadra e quindi riescono a farsi valere meno sul piano collettivo, tu che ne pensi?

E’ vero, si è parlato solo alla fine del nostro lavoro. Il nostro ambiente è diviso in diversi mondi, i più sindacalizzati sono gli attrezzisti, le truccatrici, anche per il tipo di contratti con cui vengono inquadrati, loro lavorano con le loro competenze tecniche, noi artisti invece lavoriamo con la nostra persona, con il nostro corpo. E’ vero che c’è qualche egocentrico tra gli artisti, ma credo che questo non riguardi i veri professionisti perché quelli sanno benissimo che il cinema è un lavoro di squadra.

I veri professionisti non sono mai prime donne, per un motivo fondamentale: il vero successo per un vero artista è il riconoscimento del pubblico, il fatto di riuscire a far vivere al pubblico delle esperienze, aprire nuove prospettive. Quello che credo si debba tenere ben presente è che, dietro un prodotto artistico che sia un film o una rappresentazione teatrale, ci sono tantissime persone che lavorano, non solo quelle che si vedono sullo schermo o sul palco. Questo è un settore che dà da mangiare a tantissime famiglie e per questo merita la stessa attenzione di altri settori.

Anche dietro all’attore, che poi è la punta dell’ iceberg di tutto questo lavoro, in genere c’è una gavetta lunghissima. Tu come hai iniziato, qual è stato il tuo percorso?

La formazione è lunga e continua, io sono contentissimo però della mia gavetta, fatta di tanti piccoli gradini, perché ogni passo avanti è costruito su basi vere, ogni piccola posizione conquistata e sudata la sento salda.

Vengo da una famiglia che non ha niente a che fare con il cinema. infatti mi ero iscritto a medicina, ma nel teatro prima e nel cinema poi ho trovato la mia vera passione. Così, ho mollato tutto e ho provato a fare quello che volevo veramente fare. Ho iniziato a frequentare dei corsi, masterclass e poi sono entrato in un’accademia internazionale, grazie ad una borsa di studio. Sono stato anche fortunato perché, mentre recitavo in un corto teatrale, sono stato praticamente subito notato da un agente. Così ho iniziato prestissimo a guadagnare con questo lavoro con la pubblicità, i primi piccoli ruoli, le produzioni indipendenti che ancora amo molto. Parallelamente ho proseguito il mio percorso formativo e ho frequentato un corso con il maestro Giorgo Albertazzi.

E cosa ricordi di lui?

Sicuramente è stato un incontro importante. Il grande Albertazzi, dopo 80 anni di arte, mi ha fatto capire con poche parole una cosa veramente importante. La scelta di essere un artista ti invade tutta la vita. Un artista non può di fatto mai staccare con il lavoro: noi lavoriamo con noi stessi, con la nostra persona, il nostro corpo.

Il tuo sogno di diventare attore ti ha portato anche nella Mecca del cinema, Los Angeles, come ci sei arrivato?

Avevo fatto il provino per entrare alla Scuola Gianmaria Volontè ma Silvia Muccino, importantissima casting director, in quell’occasione mi ha dato un consiglio preziosissimo. ‘Secondo noi non ti serve la scuola sei pronto per lavorare, vai a farti un esperienza all’estero’. Ho pensato subito a Los Angeles, ma i soldi per partire e rimanere lì non li avevo. Perciò mi sono subito messo a cercare il modo di capire come potevo fare e alla fine ho trovato un bando della regione e sono volato a Hollywood. Lì ho studiato il famosissimo metodo Strasbergh, imparato l’inglese e anche fatto molte esperienze lavorative.

Differenze tra l’industria del cinema italiana e quella Usa, secondo la tua esperienza, quali sono?  

Quello che ho apprezzato di più degli Stati Uniti è che lì non c’è un rapporto ipocrita con i soldi: si lavora per guadagnare, e nessuno si vergogna a dire questa verità, mentre in Italia con il fatto che fai l’artista, sembra quasi imbarazzante volere guadagnare tanto. Negli Stati Uniti, per quello che ho visto, c’è molta professionalità e meritocrazia. Io venendo da un altro paese sono riuscito a lavorare in pochi mesi in 16 produzioni indipendenti.

Qui invece c’è ancora l’idea, soprattutto da fuori e tra i giovani che, per lavorare nel cinema, basta fare un reality o diventare noti per altri canali. Ma se pensiamo che in dieci anni di Grande Fratello sono usciti solo due veri professionisti, che si sono impegnati e si sono messi a studiare. Questa è un’idea che viene facilmente smentita. Lì poi, percepisci l’entusiasmo delle persone e questo ti spinge a impegnarti, anche perché davvero l’impegno viene ripagato. Loro non guardano chi sei, per loro “business is business” e la conseguenza è che se gli servi e gli porti qualcosa ti prendono.

In Italia è più difficile che accada?

Sì, ma non bisogna lamentarsi più di tanto secondo me. Io ho lavorato in America e continuo a lavorare qua, sentirsi vittime del sistema non serve a niente. Anzi, in un certo senso, le difficoltà portano a una scrematura. La verità è che chi ci crede veramente e combatte fino allo sfinimento per realizzare i suoi sogni lo fa per se stesso, per nessun altro motivo. E’ difficile, è vero, ma se ci pensi, qualcuno ci riesce e allora, ‘perché quel qualcuno non puoi essere tu’? Poi la verità è che in questo momento tutti i mestieri sono in crisi. Io che sono abituato a guardare ai problemi come a delle opportunità, penso che quando tutta l’economia è in crisi e tutti i mestieri diventano difficili. Tanto vale scegliere quello che veramente vuoi fare.

A sentire la passione con cui parli del tuo lavoro credo che tu non veda l’ora di ripartire. Progetti presenti e futuri?

Si, sono prontissimo, anche se non mi sono fermato mai nemmeno durante il lockdown, è ora di tornare sul set. La pandemia ha bloccato un film di cui giriamo le ultime scene, finalmente, in questi giorni. Io non vedo l’ora di tornare sul seti di My Dorian, un’opera davvero interessante in cui reinterpreto in chiave moderna una sorta di Dorian Gray. Poi a luglio, sarò impegnato in un bellissimo horror. E’ un genere che ha avuto grande successo nel cinema italiano negli anni ’70 e che ora prosegue nel circuito delle produzioni indipendenti che sforna titoli davvero molto interessanti.

Anzi, secondo me il cinema italiano anche nella sua versione mainstream dovrebbe ricominciare a produrre storie ‘di genere’. Ci sono tantissimi tipi di film che le grandi produzioni nazionali hanno abbandonato. Se gli spettatori oggi, per fare un esempio, vogliono vedere un film d’azione, sono costretti a vedere un film americano. E questo è un peccato.

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