Quali legami ci sono tra pandemia ed emergenza ecologica? Come ripartire in modo più sostenibile? In occasione della Giornata della Terra, ne parliamo con Elisabetta Ambrosi, giornalista esperta di tematiche ambientali

Secondo diversi studi l’emergenza sanitaria legata al Coronavirus sarebbe collegata a diverse problematiche ambientali, per esempio quella legata alle polveri sottili nell’aria. In occasione dell’Earth Day, la Giornata della Terra, ci siamo chiesti: cosa ci insenga questa crisi in tema di sostenibilità? Come ripartire cercando di non ripetere gli errori del passato? Ne abbiamo ragionato con Elisabetta Ambrosi, giornalista del Fatto Quotidiano, esperta di questioni ambientali.

Elisabetta, in che modo l’emergenza sanitaria e la pandemia possono considerarsi connesse alla questione ecologica?

 In greco “eco”, οίκος, significa casa, e dunque potremmo dire che l’ecologia è la scienza della casa in cui viviamo, ovvero l’ambiente. Se nella nostra casa privata si manifestasse un’infezione, ma al tempo stesso esistessero gravi problemi di altra natura, non penseremmo che fossero connessi? Se nostro figlio avesse la febbre e la tosse, e l’aria di casa fosse irrespirabile, non legheremmo le due cose? In altre parole: come si può separare la distruzione dei nostri ecosistemi, della biodiversità terrestre, la deforestazione, il cambiamento climatico dall’infezione pandemica che ci ha colpito? Lo sostengono autorevoli studi scientifici, lo sostengono divulgatori scientifici – come David Quammen, autore di Spillover – ma anche, in maniera più narrativa, scrittori e poeti. Persino il papa, nella sue toccanti omelie di queste settimane, ha detto che è impossibile restare sani in un mondo malato. Se consideriamo la terra come un unico organismo questo legame è persino banale. In teoria non si tratta di una cattiva notizia, anzi, questo vuol dire che, in teoria, avremmo tutte le armi per combatterlo e soprattutto fare prevenzione. A patto che, appunto, si capiscano e si comunichino le connessioni, cosa che, purtroppo, non è ancora stata fatta in modo adeguato, anche da parte delle istituzioni. Siamo totalmente concentrati sulle soluzioni, e sul vaccino (importante, ovviamente), ma non sulla prevenzione.

La pandemia si è andata ad aggiungere ad altre catastrofi di cui siamo stati spettatori impotenti o quasi quest’anno: dagli incendi in Australia, all’invasione delle locuste in Africa, sono tutti sintomi della stessa malattia?

 Se si adotta un certo tipo di sguardo è evidente che si tratta di sintomi di un medesimo problema, ovvero il cambiamento climatico. Ma appunto, bisogna avere lo sguardo felice e lungimirante di Parmitano, quello che guarda le cose dallo spazio. In realtà, basterebbe anche un po’ di consapevolezza, ma poiché il tema è molto angosciante le persone tendono a non vedere. E qui ritorna il problema delle nostre istituzioni: dovrebbero essere loro a rivendicare il legame tra tutti questi aspetti, ad allertarci sul tema del clima e sul legame tra distruzione ambientale e pandemia, dovrebbero essere loro a mettere in atto misure di azione e prevenzione. Ma non lo fanno, o in piccolissima misura.

La pandemia ci ha chiusi due mesi in casa e abbiamo assistito ad immagini che raccontano come, in assenza dell’attività umana, la natura si riprende i suoi spazi anche nei contesti più antropizzati, basti pensare alle acque di nuovo cristalline di fiumi e canali o alle foto e ai video che ci hanno raccontano di animali che scorrazzano per le città tranquillamente, senza paura. Sono immagini belle, ma che escludono la presenza umana, come creare le condizioni per prolungare questa situazione in cui la natura ha ritrovato un po’ di spazio, alla ripartenza delle attività produttive?

 Si, sono immagini talmente belle che ho pensato: forse dovremmo proprio farci fuori ogni tanto per dare spazio alla natura, quello spazio che si merita, quello che le abbiamo tolto (penso alla distruzione delle specie, ad esempio, le continue estinzioni, una cosa tremenda). Ho pensato anche che forse dovremmo fare due mesi di reclusione totale all’anno per abbassare le emissioni. Ma ovviamente si tratta di un pensiero paradossale, che riflette però una certa frustrazione rispetto al fatto che non riusciamo a trovare invece una convivenza equilibrata tra noi e la natura. Perché l’uomo fa parte della natura, ed è giusto che abbia un ruolo. Non mi piace molto l’ambientalismo radicale apocalittico che spera nella sua estinzione, preferisco chi la combatte e chiede però un cambiamento radicale. Insomma, l’uomo può essere distruttore ma anche costruttore. E questa ripartenza è un’occasione formidabile per ripensare il nostro modo di vivere e il nostro modello economico, non dobbiamo assolutamente sprecarla.

Durante questo tempo chiusi in casa abbiamo sperimentato stili di vita nuovi: dallo smartworking, alla scuola a distanza, al cambiamento dei nostri consumi alimentari, molto più attenti, al nuovo modo di impiegare il tempo libero: cosa tenere e cosa no in ottica di sostenibilità?

Da questo punto di vista mi sento di dire che questo tempo ha portato cambiamenti straordinari che possono dare risultati notevoli. Proprio ieri, ammetto, su un gruppo ambientalista ho criticato chi metteva sul piatto l’inquinamento dei dati, dicendo che dobbiamo consumarne di meno perché, appunto, creano danni come la plastica. E non perché non esista un inquinamento digitale, ma perché al momento dobbiamo vedere anche lato positivo: quanti spostamenti abbiamo annullato? Quante cose abbiamo potuto fare su vecchie e nuove piattaforme? Quante esperienze potremmo lasciare su queste piattaforme dopo? Io direi tantissime. Lo smartoworking, anzitutto, uno strumento formidabile, se ben fatto e ben usato. Poi, un altro esempio il fitness on line, io ad esempio – per dare un’immagine divertente – ho fatto le mie consuete lezioni da danza classica on line. E’ andata benissimo, e io dico: ma perché non continuiamo così dopo la fine della pandemia, se finirà, alternando presenza e virtuale? Eviteremmo di attraversare le città, con tutte le conseguenze del caso. Anche la scuola: se necessario si potrebbe pensare a un giorno a settimana di didattica on line, se serve. E anche sul mangiare: maggiore autoproduzione, la gente ha imparato finalmente a cucinare, senza usare prodotti pronti, ma anche il minore spreco. Tutto questo si può fare senza troppa sofferenza, è un esempio di decrescita felice. O no?

Come ripartire, cercando di evitare gli errori precedenti? Come sfruttare al meglio la dura lezione della pandemia?

Non è facile rispondere a questa domanda. Si può sfruttare al meglio la lezione della pandemia se la si è capita, ovvero se si è capito il nesso tra devastazione ambientale e infezione pandemica. Se non si è capito questo nesso, non potrà cambiare neanche il nostro modo di vivere. Le faccio un esempio: alcuni propongono per la fase due l’uso dell’auto individuale, con la conseguente apertura, ad esempio a Roma, delle zone a traffico limitato. Ovviamente se ti metti solo dal punto di vista della pandemia potrebbe aver senso, ma se hai capito che esiste un legame, com’è stato anche dimostrato, tra diffusione del virus e aria inquinata una soluzione del genere non la pensi neanche. Insomma, si possono evitare gli errori solo se si fanno le connessioni giuste e solo se si è capito davvero il problema nella sua globalità.

Da professionista che si occupa di tematiche ambientali, cosa vorrebbe che succedesse, e cosa invece crede che succederà?

 Mi occupo di ambiente non da tantissimo tempo ma ho fatto in tempo a provare la frustrazione di vedere quanta scarsa attenzione c’è rispetto alla gravità dei problemi (spesso anche perché non siamo bravi a comunicarli). Quando è arrivata la pandemia ho pensato che finalmente il nostro modo assurdo di vivere – un modo di vivere che consuma le risorse annuali della terra già a metà anno – si sarebbe dovuto fermare, che ci saremmo dovuti mettere in discussione. Questo lo penso ancora, anche se non posso dire che la pandemia è stata “benedetta” per rispetto di coloro che sono morti, però io credo che questo choc sia stato beneficio, e che sia quasi un’opportunità, visto che poteva essere molto più letale. Da un lato, va detto, non si sono capiti i legami con l’ambiente, né l’informazione ha approfondito questo cruciale aspetto, per cui abbiamo assistito al paradosso di un’umanità che discuteva solo sui sintomi di un problema e non sulle cause. Una cosa grottesca. Ma dall’altro, invece, credo che la pandemia ci abbia cambiato e che non saremo più gli stessi. Per la prima volta la nostra fragilità globale è stata evidente, per la prima volta stare in America come in Europa era uguale (al di là ovviamente delle differenze sociali), per la prima volta abbiamo dovuto affrontare il tema di una nostra possibile morte ed estinzione. Ancora: finalmente il tema della salute è entrato nel dibattito pubblico, finalmente è caduto il tabù dei vincoli di bilancio di fronte al tema dell’autodistruzione, finalmente gli esperti sono diventati protagonisti al posto dei politici. Incredibile. In poche settimane si è riuscito a fare quello che non si era riuscito in anni e decenni. Ecco, io spero non solo che tutto questo rimanga, ma che si riesca a fare un ulteriore spostamento, magari sempre utilizzando il tema chiave della salute. Se vogliamo essere sani e vivere dobbiamo anche proteggere il nostro ambiente. Non esiste alternativa. Se dunque oggi ascoltiamo i virologi come nuovi guru, dovremmo anche, finalmente, ascoltare i climatologi. Mi auguro che si passi a questa fase. Se accadrà? Io penso di sì ma quello che non so è se accadrà naturalmente o dopo un altro choc, sempre di natura ecologica(la pandemia è stata la nostra prima vera crisi globale ambientale), ma magari in senso più evidente: penso ad esempio a possibili ondate di calore mortali previste a breve in paesi poveri come l’India. Non lo sto augurando e spero che non accada. Dico solo che credo che tra qualche anno, e forse prima, non si parlerà che di ecologia, ma bisogna vedere nel frattempo che costo umano avremo dovuto pagare perché ciò accada. Come è accaduto per il virus.

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