Il Museo di Roma in Trastevere. La Roma sparita degli acquerelli di Roesler Franz e le scene di vita popolare a cavallo tra ‘7-‘800 in un ex convento carmelitano
Ogni prima domenica del mese, c’è la possibilità di visitare gratuitamente musei e siti archeologici. Oggi vi invitiamo anche noi di TuaCityMag al museo, e vi portiamo alla scoperta del Museo di Roma in Trastevere.
Situato nell’ex convento secentesco delle carmelitane scalze di piazza Sant’Egidio, il Museo di Roma in Trastevere è stato restaurato e riaperto al pubblico nel ’77. All’epoca col nome di Museo del Folklore e dei Poeti Romaneschi.
Museo di Roma in Trastevere: l’esposizione permanente
Il piano terra ospita periodicamente mostre (in questo periodo potete visitare Sulle Tracce del Crimine, di cui vi abbiamo parlato qui).
Al piano superiore invece, è visitabile un’esposizione permanente con sei scene di vita popolare di Roma e del Lazio a cavallo tra Sette e Ottocento. Ogni scena è stata ricostruita in un’apposita nicchia un po’ come un presepe. Abbigliati con i costumi del tempo, i manichini a grandezza naturale vendono vino, giocano a carte, acquistano rimedi dallo speziale o ballano il saltarello.
Alle pareti, una raccolta di dipinti, stampe, disegni e una nutrita serie di acquerelli della Roma sparita a firma di Ettore Roesler Franz.
C’è poi una riproduzione dell’abate Luigi, una delle più famose statue parlanti di Roma, su cui i romani dei secoli passati usavano affiggere messaggi anonimi e componimenti satirici contro il governo.
Fanno parte della collezione anche diversi materiali appartenuti al poeta Trilussa (Roma 1871 – 1950) e donati al comune di Roma dopo la sua morte.
La Roma di una volta in mostra
Alloggiati ciascuno all’interno d’una piccola stanza decorata in modo da riprodurre gli ambienti tipici della Roma del tempo, è possibile quindi imbattersi in figure caratteristiche delle Roma papalina, per esempio in uno scrivano pubblico.
Era questo un mestiere che all’inizio dell’Ottocento permetteva di guadagnare abbastanza bene in una città come Roma, dove pochissimi sapevano leggere e scrivere. Qui lo scrivano è intento a comporre una lettera per conto di due ciociare, le contadine del basso Lazio.
Sono riconoscibili dalle caratteristiche calzature, formate da una suola e da un panno bianco che sale a avvolgere caviglia e polpaccio e è tenuto a posto da due lacci incrociati: le ciocie, appunto. Il tavolino dello scrivano è su strada, insieme ad altre piccole attività di commercio. C’è anche un venditore di caldarroste e da un angolo spunta una guardia pontificia. Alcuni modelli di lettere preconfezionati sono appesi al muro.
Gli scrivani pubblici infatti svolgevano la doppia funzione di legger le lettere arrivate a chi non poteva leggersele da sé e di scriver le risposte. Spesso in base a questa specie di ciclostili o modelli già preparati. In genere venivano dall’Umbria e dalle Marche. Si piazzavano col loro tavolino soprattutto nelle vicinanze delle zone di mercato, come piazza Montanara o piazza Campo de’ fiori. Qui all’inizio dell’Ottocento aveva luogo anche l’ingaggio dei braccianti stagionali.
Sempre all’inizio dell’Ottocento, dalla fine di novembre a dopo Natale arrivavano a Roma i pifferai.
Pastori provenienti dall’Abruzzo, suonavano appunto il piffero da cui ovviamente il nome, anche se in realtà a suonarlo era uno solo. Degli altri due uno suonava la zampogna e l’altro cantava. Se erano solo in due, quello che suonava il piffero a tratti interrompeva la melodia per cantar le novene, cicli di preghiere che duravano nove giorni. Quelli raffigurati qui suonano e cantano davanti a un’edicola votiva con l’immagine della Madonna, mentre una donna è inginocchiata in preghiera. La loro presenza in strada ricordava l’avvicinarsi della nascita di Gesù nelle strade e nelle case, oltre che nei presepi, dov’erano sempre collocati accanto alla Sacra Famiglia. Interessante il loro copricapo, spesso ornato di nastri tra cui s’infilavano immaginette della Vergine o di san Domenico (protettore dai cani rabbiosi e dai serpenti).
La loro funzione era appunto di protezione dai rischi connessi al viaggio che i pastori compivano due volte l’anno con le greggi. Insidiosa anche la permanenza nella paludosa campagna laziale, infestata dalla malaria. Dopo il 1870, agli zampognari e ai pifferai non fu più rinnovata l’autorizzazione a suonare e cantar le novene in una Roma appena diventata capitale dell’Italia unita. Così l’usanza andò pian piano scomparendo.
Vino e medicina
Tra le scene rappresentate degna di nota anche quella del carro a vino. Per portare a Roma il vino dei Castelli, i carrettieri viaggiavano soprattutto di notte. Il cavallo conosceva la strada e il cane avvertiva d’ogni eventuale pericolo. Difficile tuttavia non accorgersi del passaggio del carro, per quanto notturno.
La ferriera, un misto di campane e campanelli fissati a una lamiera appesa alla forcina (o cuffia, una cappotta a soffietto impermeabilizzata e dipinta a grossi fiori), e il secchione, una bigoncia appesa sotto il piano del carro in modo da far baccano a ogni scossone, producevano infatti un chiasso notevole. Ferriera e secchione compaiono anche nella scena qui riprodotta, sebbene il secchione, decorato con una testa di cavallo, non sia collocato sotto il carro, come certo sarebbe stato durante il viaggio. I carrettieri sono rappresentati mentre giocano a morra. Il san Cristoforo appeso al muro è il patrono dei viaggiatori: gli si chiedeva protezione contro la tempesta, la peste e la morte improvvisa. Funzione apotropaica aveva anche il (povero…) barbagianni fissato ad ali aperte sulla parete opposta.
Interessante, infine, la scena che raffigura una farmacia romana dell’Ottocento. Il farmacista, o speziale, è un frate rubicondo e dai folti basettoni. All’epoca le farmacie erano spesso annesse ai conventi o anche a ospedali gestiti da ordini religiosi. A un tavolo poco discosto, un medico è in conversazione con un paziente o forse un cliente della spezieria. L’ampio cappello e il bastone da passeggio appoggiati su una seggiola. Vicino al lungo bancone una giovane donna, elegantemente abbigliata in giacchino e gonna a balze, esamina con attenzione la boccetta col rimedio per gli occhi infiammati della figlia. Questa, intanto, cerca di sfuggirle, costringendola a una torsione del busto davvero realistica, lo sguardo sempre fisso sul medicamento e la mano aggrappata alla spalla della piccola. La giovane mamma, evidentemente borghese e cittadina, si è quindi rivolta per dir così alla medicina ufficiale.
Ma il popolino ricorreva in primo luogo ai rimedi consigliati dalla tradizione contadina. Sugli occhi arrossati, un po’ di ricotta o un uovo fresco sbattuto. E poi un lavaggio con cremor tartaro bollito con qualche goccia di succo di limone. E prima ancora, per tener lontani i malanni dagli occhi dei figli, maschi o femmine che fossero, un bel paio di orecchini d’oro.