Come si fa a diventare la first lady più ‘presidente’ della storia, capace di dare nuove sfumature al ruolo? Lo racconta Becoming, il documentario Netflix su Michelle Obama
Nel novembre del 2008 assistevamo, con gli Stati Uniti, a un evento di portata eccezionale: l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, primo presidente nero della storia del Paese. Un personaggio diverso da qualunque esempio presidenziale l’America avesse mai avuto, che aveva basato la sua intera campagna elettorale sulla forza della speranza. Sin da subito diventava chiaro che il marchio Obama veniva in due componenti inscindibili. Quattro anni dopo la fine del mandato del marito, si chiede già a gran voce “Michelle2024”.
Fiera, intelligente, impegnata. Si era capito che per Michelle Obama il ruolo di First lady avrebbe dovuto trovare nuovi significati o sarebbe stata lei stessa a imporli. Quegli otto anni dietro le mura “più bianche” del mondo, lei più di tutti li ha colorati: per poi raccontarli nel libro “Becoming – La mia storia” (2018) e nell’omonimo documentario girato per Netflix da Nadia Hallgren.
Però ci ha tenuto subito a dirlo:
“Poco di quello che sono è successo negli anni della presidenza Obama, molto di più è stato prima”.
Dove si intende che non è l’evento straordinario a cui partecipi ciò di cui dovresti fregiarti, ma il percorso sudato per arrivarci. In fondo la lezione di MichelleObama alle “sue ragazze” – quelle giovani donne che faranno grande l’America – è tutta rinchiusa qui. E parla di sacrificio, convinzione e fermezza.
Tutta quella che è servita a lei, sempre prima della classe, per opporsi a quell’assistente scolastica che le aveva detto: “Sai Michelle, non credo che tu sia materiale per Princeton”. Perché donna, perché nera, stava volando troppo in alto desiderando di frequentare una delle università più prestigiose del paese. “Con quale coraggio me lo disse – racconta ora Michelle, su uno dei palchi delle 34 città in cui è in tour per il libro – sono ancora un po’ risentita”.
Quello della rabbia è un altro dei punti fermi della Obama, che nel documentario arriva allo spettatore sottilmente. L’immagine della rabbiosa, sempre immusonita dietro le quinte della campagna elettorale e poco affezionata al Paese che sosteneva di amare, è la prima che gli avversari di Obama utilizzano per schernirla. Quello sguardo concentrato e i discorsi pensati a braccio, così poco si adattano all’immagine della First lady sorridente e mansueta a cui gli americani sono abituati.
Michelle ha troppa personalità, troppa indipendenza. Le ingiustizie la fanno arrabbiare e lei lo dimostra, infrangendo quelle regole non scritte che vorrebbero la moglie del presidente una figura simbolica e ben vestita. Ma dell’indignazione del pubblico lei non sa che farsene perché tutte le ragazze hanno diritto a essere in disaccordo. Quindi continua a non sorridere e a staccare pezzo per pezzo quei residui imposti sulle ragazze “buone, brave e belle”, che sennò non trovano marito.
Nel suo, di marito, del resto c’è una profonda ammirazione proprio per le sue qualità “spinose”. Del suo rapporto con Barack parla con molta sincerità in quegli stadi enormi dove il suo libro riunisce tantissime persone. “Non è facile stare accanto a un uomo ambizioso – ammette – avrà sempre sé stesso come priorità”. Sopratutto con l’arrivo delle figlie, Sasha e Malia, Michelle si accorgeva di essere sempre lei a fare delle rinunce, emotive e lavorative.
Poi la terapia di coppia ha aiutato: “Ho capito che non dovevo prendermela con lui, ma cominciare anche io a prioritare me stessa”. Con l’elezione poi, doveva essere chiaro che “non volevo essere un’appendice dei suoi sogni”. Perciò ha proseguito con i suoi, incontrando le donne di ieri e di domani, per pensare un mondo in cui l’esistenza di una presidente donna costringesse a rielaborare il termine “First lady”.
Dopo otto anni di governo Obama, certamente lasciare la Casa Bianca a Donald Trump non la considera una vittoria. Quel clima di razzismo e intolleranza, che qualche giornalista aveva incautamente definito “over” (finito), è tornato più prepotente di prima. “When they go low, we go high” (Quando loro toccano il fondo, noi ci innalziamo) è lo slogan di Michelle Obama diventato famoso contro le discriminazioni. “Sapevamo benissimo di essere una provocazione, noi come famiglia Obama”, dice, perché si portavano dietro tradizioni, esperienze e desideri diversi da chiunque avesse mai solcato quella porta. “I nostri antenati erano schiavi”, risponde semplicemente a chi le chiede perché consideri così importante riunirsi, dibattere, creare dei gruppi.
“Il potere che ha l’azione del riunirsi è incontrastato”, dice seduta tra le tante scuole, biblioteche, chiese d’America. Circondata da giovani e anziani con cui desidera quel confronto senza barriere. Ora che quegli anni di presidenza sono finiti, poter girare e incontrare gente è la sua più grande conquista. Una pausa da tutta quella perfezione che le era stata imposta e un’occasione per guardare di nuovo il mondo in faccia. Impossibile non pensare a quanto ora, in tempi di Covid-19, azioni così semplici suonino tanto strane.
Da “Becoming” arriva però un messaggio che sopravvive anche a questi tempi difficile, senza offuscare la figura di una donna che prima di tutto crede. Crede che un mondo diverso è sempre possibile, indipendentemente dalle condizioni di partenza. Crede nelle ragazze, come motore del mondo. Crede nella lotta, quella rabbiosa e inelegante, perché nessuna conquista è per sempre. Crede, infine, in quel sentire comune che ci rende finalmente invincibili. Perciò grazie Michelle Obama, a buon rendere.