Beatrice è una “donna difettosa”; ha dietro di sé un ruvido passato di periferia romana, in balìa degli umori di un padre tanto squilibrato da sembrare comico, e del quale è convinta di aver ereditato la follia. Il presente, proprio quando con la morte del padre sembra aprirsi a un nuovo inizio, un trasferimento, un matrimonio, è soffocato dalla scoperta di una malattia autoimmune, e cadenzato da ospedali e cure che non sembrano funzionare. La felicità deve fare i conti con la sua costante sensazione di punizione: l’idea di meritarsi il proprio dolore.
Un’idea che, tuttavia, viene combattuta a colpi di ironia, affrontando le paure e trasformandole in caricature mitologiche, e donandoci una storia tanto dolorosa quanto divertente che forse può meritarsi un lieto fine, o qualcosa che gli assomiglia. E’ questo il senso di “ Sangue cattivo- Anatomia di una punizione ( Effequ), la creatura libraria di Beatrice Galluzzi, romana di nascita ma toscana di adozione ( abita a San Vincenzo- Livorno, dove si occupa di mille cose, fra cui fare serenamente la mamma e la moglie.
Intervista a Beatrice Galluzzi, scrittrice del memoir Sangue Cattivo
Beatrice, nel libro lei racconta la storia di una malattia vissuta come una punizione, e di una famiglia difficile che vive un disagio affettivo. Eppure le sue parole trasudano amore. Come si concilia tutto questo?
“Credo che quando si cresce in una famiglia eccentrica, piena di estremi e contraddizioni, la cosa più naturale è abitarli quei sensi opposti. Anche le emozioni, che passano attraverso l’imprevedibilità degli eventi, sono vissute annientando le vie di mezzo. Le difficoltà relazionali nelle quali mi sono ritrovata, difficilmente interpretabili per una bambina, hanno fatto sì che i miei sensi fossero sempre in allerta, pronti a captare qualsiasi movimento o cambio di rotta, di umore. Tutta questa necessaria attenzione sul mondo ha però forgiato non solo la mia capacità di reazione al pericolo ma anche quella di adattamento. E a interrompere il vortice di alti e bassi, la sensazione di essere in pericolo imminente, esposta agli eventi, è stata una promessa: reagire, caricare l’ariete e sfondare il muro che mi separava dal lato opposto: una famiglia sana, un amore salvifico. Ma il mio impeto ha avuto un risvolto nefasto, che è stato quello dell’esaurimento dell’energia e di conseguenza della salute”.
Nel racconto l’amore trasuda apertamente nella relazione tra lei e suo marito.
“ Che a volte passa anche dalle scenate, dalle crisi e dalle liti tra le mura domestiche, perché se di amore non si può parlare, se l’amore non si sa comunicare, non vuol dire che esso non esista”.
Sua madre e suo marito hanno letto il testo prima della pubblicazione? E, se sì, come hanno reagito?
“Aldo ha letto molte versioni e revisioni del manoscritto, probabilmente perché anche lui faceva parte della storia, ma non ha mai dato giudizi, se non qualche suggerimento sulle scene, secondo lui, più0 potenti. C’è stato un lungo lavoro sul testo che ho affrontato con la mia editor Francesca de Lena e, via via che andavamo avanti, mio marito lo ha seguito passo passo, leggendo e rileggendo con pazienza. Mia madre invece ha letto qualche capitolo, qua e là, ma non la versione del tutto compiuta. Anche lei fa necessariamente parte della storia e le è troppo doloroso ripercorrerla: affrontare la mia malattia nel modo crudo con cui l’ho descritta, e così anche la vita che abbiamo fatto insieme, costrette a ripararci dalle crisi di mio padre, un uomo che abbiamo provato invano a ridicolizzare, per depotenziarne la forza distruttiva”.
Scrivere le è servito a liberarsi da fantasie, ma soprattutto dalla sofferenza?
“Ci sono varie filosofie di pensiero riguardo alla scrittura come forma di liberazione, di rinascita. C’è chi sostiene che scrivere serva a sentirsi meglio, che sia un momento catartico, curativo, specialmente quando si tratta di autobiografie, di memoir. Per me è stato l’esatto opposto: sono andata a smuovere una sofferenza che ormai si era depositata, infilandomici dentro con abiti scomodi e rischiando di rimanervi impantanata. Ma l’ho fatto scrivendo a modo mio, coerente alla mia insofferenza verso i pietismi, assecondando la mia perpetua, inspiegabile spinta verso una resilienza che persino io rinnego”.
C’è una particolare attenzione nel descrivere la bellezza che la circonda, anche quando l’ambiente non è particolarmente idilliaco (Italsider di Piombino e certe zone di Ostia), eppure c’è sempre affetto e ammirazione per il creato. Da cosa nasce tutto ciò?
“Sono sempre stata attratta dagli oggetti, dalle persone e dai paesaggi non convenzionali. Un tramonto non potrà mai commuovermi come un vecchio edificio dell’Italsider, che con la sua ruggine racconta le intemperie, l’erosione della salsedine e le impronte degli operai. Il tramonto si ripete ogni giorno, anche se non è mai uguale, ma gli oggetti, gli esseri viventi sono destinati a finire, a consumarsi, e questo è il processo per me più poetico: inevitabile, sincero, porta con sé i segni, i ricordi, la memoria. Così come Ostia, una parte di Roma schifata, insoddisfatta, sottovalutata, orgogliosa di essere outsider; un universo complesso e struggente che Citti, Pasolini, Caligari sono riusciti a rendere immortali. Non c’è artificio che tenga, non c’è facciata che debba essere mantenuta, ed è per questo che vedo nella periferia la bellezza di qualcosa che si muove, si disfa e riprende vita senza criterio, sulle macerie, per poi marcire di nuovo, senza lasciare spazio alla vergogna.”
Come vive il presente, adesso che tante cose sono cambiate in meglio rispetto al passato, con un uomo che la ama e una figlia?
“Faccio molta fatica a stare sul presente, perché temo che il passato mi insegua e che il futuro sia lì pronto, di nuovo, a disattendere le mie aspettative. L’amore per una figlia e per un marito, anche se ampiamente ricambiato, mi destabilizza e spaventa profondamente: essere legati a qualcuno aumenta il rischio di ferirlo. Un motivo in più per stare bene; Sisifo che scala perennemente la montagna, anche quando vorrebbe lasciarsi andare assieme al masso che spinge. Quando sei amato, quando ami, non puoi mollare, non puoi buttarti da quella discesa e tornare indietro perché rischieresti di portarti dietro tutti, e non è giusto. Ma certo è anche rincuorante essere circondanti di affetto e carica di significato proprio quello sforzo, che assume quasi un senso eroico e universale. Per quanto mi riguarda però devo sempre concentrarmi per non essere sopraffatta dalla paura che tutto possa finire, e che la salita ricominci.”
Sta già scrivendo una nuova storia?
“Scrivere mi è costato dolore ed estrema fatica, prima che uscisse “Sangue cattivo – Anatomia di una punizione” ed ero convinta che non sarei più stata in grado di concepire e portare a termine un altro racconto. Nella mia testa, però, il progetto c’è sempre stato e non riesco a starne lontana: lo sto edificando giorno dopo giorno, scrivendo con addosso gli stessi abiti, scomodi e pesanti. Ho fatto un lungo lavoro di ricerca prima di capire che avrei di nuovo scritto non fiction, affrontando così il tema che mi interessa dal punto di vista di un’osservatrice attiva e presente nella storia. E, dopo essermi crogiolata a sufficienza nel dolce preludio dove l’eroe – l’eroina – prepara le valigie, ho ritrovato finalmente lo slancio per intraprendere un altro viaggio.”
CHI E’ Beatrice Galluzzi
Beatrice Galluzzi è laureata in comunicazione nella Società della Globalizzazione. Vive a San Vincenzo, in provincia di Livorno, dove lavora come bibliotecaria e organizza laboratori culturali nelle scuole ed eventi culturali. È fondatrice e redattrice della rivista «Donne Difettose». Ha partecipato alle antologie Repertorio dei matti della città di Livorno (Marcos y Marcos, 2016, a cura di Paolo Nori) e The dark side of the woman (Il Foglio, 2018). I suoi racconti compaiono in numerose riviste on line, tra cui «Malgrado le mosche», «L’irrequieto» e «Verde rivista», e nel 2017 e nel 2018 è stata finalista al premio Giallo Mondadori. È inoltre organizzatrice del festival dedicato a scrittrici e sceneggiatrici ‘Marea Noir’.
